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Jacopo Pozzi
L'autore pertanto porge in modo ordinato e placido le sue domande ultimative, intorno all'uomo, che si lasciano apprezzare come sano controcanto all'appiattimento e alla banalizzazione del pensiero egemone di basso profilo, oltre che per la chiarezza e l'acume logico. Come accade innanzi alle parole di Sören Aabye Kierkegaard, anche qui siamo messi di fronte alle Nostre responsabilità: quelle pienamente umane della scelta vocazionale, afferenti al nostro itinerario futuro, al nostro Esser-ci consapevoli della finitudine. “Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta speranza, la disperazione è l'assenza della speranza di poter morire”, gridava il filosofo danese nel saggio “La malattia mortale”, ed è necessario anche per Pozzi, anzi diviene salutare, toccare le fibre intime ed ontologiche, laddove si dà vita e morte, laddove l'uomo, “solo sul cuor della terra” direbbe Quasimodo, deve scegliere di essere-per o di non-essere, al fine di liberarsi, più che della paura della morte che lo tiene in scacco, della disperazione che lo fa morire tante volte, continuamente, allorché spegne ogni desiderio di vita. Ora, in un'era in cui domina da una parte la paura, e dall'altra -come risposta alienante ed alienata- il sessualismo di massa, nuovo oppio dei popoli dell'era porno-internettuale, appare fuori tempo e fuori luogo la dialettica filosofica, che guarda le cose, il mondo, con sereno, stoico -e mai passivo- distacco, sì da risultare finanche spiazzante che un giovane autore possa tornare a desiderare “il bene” inteso non secondo la devastante morale utilitaristica, ma come dono di sé, a giudicare le esperienze secondo una scala assiologica umanistica, a scegliere la via della conoscenza, ad avere come fine quello di incontrare gli altri, di pro-gettare un'esistenza che addirittura s'infuturi nella prole, consapevole d'essere “persona”: unicum sublime in correlazione. Quindi decide di mettere le parentesi a Dio, come elemento di cui non si può dire e dunque si deve tacere (secondo la principale regola della filosofia del linguaggio del primo Wittgenstein), allora attendiamo che in un prossimo futuro riprenda la questione, giacché tutti i valori positivi ch'egli mette in campo, sono sì patrimonio del pensiero umanista e poi razionalista, ma risultano altresì valori radicali già dell'impianto giudaico-cristiano che ha informato il cammino filosofico, culturale, artistico e dello sviluppo sociale d'Occidente. Nel momento presente intanto il Nostro sceglie di dire all'Uomo sull'Uomo, di riaffermare in sostanza il comandamento kantiano, “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”, come il segreto di “una speranza ineffabile”, della felicità a cui tenacemente aspira. Andrea G.Graziano
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