Geppino Spirito

LE PAROLE E LE PIETRE


La poesia ha la vocazione di condurre il linguaggio al suo limite. Essa mira cioè a violentare le giunture del pensiero, linguisticamente organizzato, e a riordinare i rapporti tra gli enti della realtà. Essa dunque stabilisce un nuovo ordine tra gli oggetti del pensiero aggredendo la sequenza abituale, e come tale consunta, cui quelli sono assoggettati. È per questo che si dice che la poesia si contrappone all’uso quotidiano del linguaggio; ed è per questo che si afferma che la poesia tende a creare un rapporto necessario tra parole e cose.
Da qui, da questa natura della poesia, discendono poi varie poetiche, cioè varie teorie del fare poetico, dell’attività poetante. Una di queste, ben radicata nell’esperienza della modernità, presuppone che quel rapporto tra parole e cose non solo sia necessario ma che esso sia originario: un tempo, anzi all’origine stessa del tempo, le parole erano le cose. La separazione da quel tempo, da quell’origine, è fonte di una depressione profonda, e più precisamente di un lutto. L’avvenuta perdita della relazione originaria significa infatti vivere in un mondo falso; soltanto l’esercizio poetico può immetterci nel mondo vero in quanto capace di restaurare quella relazione. Questa poetica è poi ulteriormente declinabile, in senso euforico o disforico, a seconda che si ritenga che la poesia possa realmente operare quella sarcitura oppure che essa possa soltanto denunciare lo strappo avvenuto. Ed è ben evidente che in questo secondo caso la dimensione luttuosa diviene caratteristica ancor più decisiva.
Le parole e le pietre sembra muoversi dentro questa filiera, chiarendo sin dal titolo la congiunzione/disgiunzione tra verba e res: congiunzione, per l’attrazione delle parole nell’ambito delle pietre; disgiunzione, per la conferma della loro opposizione sostanziale. Che si abbia a che fare con una perdita lo denuncia il tema centrale dell’assenza, che sarà impossibilità di comunicazione («Risuonò in questi versi stanchi un’assenza | non la tua. Fra me e te rimase, distante») oppure svanimento del senso («Sentii in voi l’appassire del mondo»; o ancora nella quartina «Metti al servizio delle tue labbra l’assenza»). Tale perdita parrebbe poter essere risarcita da quella forza congiuntiva che ho appena detto, come in quei versi in cui si afferma con chiarezza: «Portai nel cuore parole consunte. | Nude pietre di una lingua antica» (e più avanti le parole sono dette rugose), dove la metafora appunto sigilla la sovrapponibilità tra i due enti. Ma poi la citazione dalla Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal chiarisce che la caduta del senso è definitiva (la “crisi” di Lord Chandos, cui evidentemente rimanda la citazione, nasce proprio dallo scollamento tra parole e cose: eravamo nel 1902).
Ed è questa oscillazione, sentimentale oltre che ideologica, che in definitiva costituisce l’assunto del libro di Geppino Spirito. Oscillazione che trova come un rispecchiamento nella stessa polarità dei riferimenti poetici. Al di là infatti dei nomi direttamente citati (Hölderlin, Celan, Beckett, più in là Rilke), mi pare si possa affermare con certezza la presenza nei versi di Le parole e le pietre di due poeti tra tutti, due poeti italiani: Dante e Montale, i quali, nonostante i tanti debiti del secondo nei confronti del primo (quale poeta occidentale, del resto, non ne ha?) costituiscono i due poli di un’idea della poesia. La poesia che tutto può dire, nel primo, la poesia che al più può mostrare lo strappo, nel secondo. E quanto a Montale direi che qui più significativa è la presenza delle Occasioni, con Dora Markus (anche in questi versi appare un «amuleto») o con La casa dei doganieri (leggendo di un «filo spezzato che più non dipana», ci viene quasi da reagire chiedendo: «è questo il varco?»). Dietro queste presenze avvertiamo così il riferimento alla produzione più allegorica del maestro novecentesco, quella in cui è più marcata la profonda assunzione del nulla. Quanto all’altro riferimento, mi pare invece evidente che a Dante risalga tutta la tematica “petrosa”, certo qui non assunta nella sua originaria misura erotica e sperimentale (sono versi assai poco “sperimentali” questi di Spirito, in prevalenza quartine a rima incrociata di versi con lunghezza irregolare), ma semmai nell’altra dimensione, infernale.
Ed è forse proprio in questa dimensione la nota più interessante di Le parole e le pietre. Lo possiamo notare rilevando l’assunzione di un lemma propriamente dantesco: una appropriazione che a mio avviso deriva da un’immagine pervasivamente presente nell’intero libretto: l’immagine è quella del gorgo (al cui centro, come in ogni movimento a spirale, c’è un vuoto, un’assenza); il lemma è gora. Direttamente dalla «morta gora» dell’Inferno di Dante Alighieri appare dunque qui il riferimento a un mondo fermo, perduto, cristallizzato intorno al suo vuoto (che è il buco del male, Lucifero confitto).
E non è un caso che questo lemma cada nell’ultima quartina della prima parte di questo libro, cioè insomma alla fine della sezione propriamente dedicata a Le parole e le pietre. Si tratta di un componimento che giova rileggere a conclusione di questo accessus. Perché presenta la polarità di cui ho sin qui detto e perché in questa polarità sa trovare una conciliante terza via attraverso la quale il poeta si riconsegna alla sua vita: «Sull’orlo delle tue dita ritrovo una Parola, | ritorna gridando dal suo esilio e dal nostro: | essa invoca una Patria o addita una gora? | Pietra, legno o cenere che sia: essa reca una traccia».
Tra la patria dell’origine e la desolante pianura dell’inferno del mondo, il linguaggio poetico si fa traccia del vivere, phàrmakon spalmato tra labbro e labbro della ferita. Una funzione consolatoria della poesia?

Giancarlo Alfano


Collana "Gli Emersi - Poesia"
pp.64 €12.00
ISBN 978-88-7680-376-5

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