Lorenzo Sebastianelli
PADRONI DI UN GIOCO
Giunto al suo terzo lavoro teatrale, Lorenzo Sebastianelli non delude le aspettative di quanti si sono emozionati leggendo le due precedenti opere.
Dopo “Il Viale” e “Sapete una cosa?”, egli si cimenta nuovamente con tematiche quotidiane, come la religione, il binomio vita- morte, l’amicizia, l’amore verso gli altri e verso se stessi, la continua ricerca della propria identità, il peccato, il dolore, la redenzione, senza mai cadere nella banalità.
Sebastianelli prosegue lungo il percorso artistico inaugurato con “Frammenti”, trasportando il lettore in un’atmosfera suggestiva, surreale, quasi onirica, nonostante l’apparente “normalità” delle situazioni e dei personaggi e la sobrietà dell’apparato scenico, semplice ed essenziale.
Ancora una volta ci troviamo di fronte a racconti di vita che oscillano fra l’introspezione psicologica e l’analisi della realtà, all’ombra di simboli misteriosi (le due donne spettatrici, il colore dei loro abiti, gli oggetti con cui si muovono sulla scena, i regali di Sabrina a Mauro…), attraverso i quali, però, si tenta di far luce su determinate verità che spesso si tende a tener confinate nell’oscura regione dei propri limiti, delle proprie paure.
Francamente non sono a conoscenza delle letture effettuate dal Sebastianelli, tanto meno del suo percorso culturale e intellettuale; tuttavia questo giovane scrittore non mi sembra digiuno delle pièce dei maggiori drammaturghi degli ultimi due secoli (Pirandello, Ibsen, Cechov, Beckett, ad esempio) ed ha sicuramente presente la funzione catartica della rappresentazione teatrale. Con convinzione, senza mai essere polemico, Sebastianelli coinvolge un pubblico disposto a mettersi in discussione, ad interagire con i personaggi, a ritagliarsi un ruolo nel dramma, tanto da esserne pienamente coinvolto. Il testo è vivo: il lettore lo interpreta, lo gestisce, lo “cuce” sulla propria pelle e questo gli rimane addosso; e non è poco, se si considera che ciò è il prodotto della sensibilità di un ragazzo non ancora trentenne, che non segue pedissequamente illustri modelli, ma che ha il coraggio di sperimentare, mettendo a nudo la propria anima. Non è difficile, inoltre, ravvisare echi evangelici soprattutto nei monologhi, nonché una personale rielaborazione di certi aspetti formali tipici del simbolismo e dello “ sperimentalismo” pascoliano e dannunziano e della precedente esperienza d’oltralpe (a cominciare dai poeti maledetti e dal Decadentismo francese) nella tendenza ad interpretare come simboli le immagini della realtà, nell’uso di ellissi, di metafore e di un linguaggio evocativo e musicale, caratteristiche, queste, presenti in alcuni monologhi e negli stacchi poetici, tutti di struggente intensità.
Per il resto, il linguaggio attinge alla quotidianità, è semplice e diretto, senza orpelli, a volte colorito, mai volgare o lasciato al caso e riproduce fedelmente situazioni che non potrebbero essere tradotte diversamente. Mauro, ex tossico, riceve in ospedale la visita di Nicola, un suo amico ancora schiavo della droga: ebbene, l’autore non li fa parlare come due damerini altolocati, così come l’infermiere Carlo, che - bonariamente - non perde l’occasione di apostrofare Mauro con un soprannome già affibbiatogli dagli amici, non si esprime davvero come un primario, e Luca, il barista, non sciorina sentenze degne di un filosofo.
I dialoghi, incalzanti e serrati, rivelano un notevole senso del ritmo, dote sicuramente naturale, ma senz’altro affinata dall’autore nel corso degli anni passati a studiare e a comporre musica.
La storia, come dicevo, è semplice.
Mauro giace in un letto d’ospedale, ad un passo dalla morte, tormentato dalle sofferenze che gli infligge l’AIDS: solamente in queste condizioni egli riesce a comprendere il valore e la bellezza della vita, quasi che il dolore che lo lacera giorno dopo giorno sia necessario a redimerlo.
Soltanto nel dolore il paziente sembra trovare la risposta a tanti interrogativi che, in passato, aveva creduto di sciogliere affogandoli (e affogandosi) nella totale distruzione del proprio essere. Soltanto attraverso una malattia che non perdona Mauro riesce paradossalmente a guarire da una sorta di miopia spirituale, che aveva reso la sua anima quasi cieca, precludendogli la possibilità di distinguere il bene dal male e di cogliere le vere ricchezze della vita, che spesso sono a portata di mano: “Il veleno è il peccato che mi offusca la mente e pone la redenzione in un bosco irto di prove”.
Solamente ad un passo dalla fine il giovane vede la vita vibrare in un piccolo gesto di amicizia, negli sguardi e nelle parole degli amici.
Solamente quando ogni speranza viene brutalmente recisa da un destino inesorabile, soltanto allora Mauro si distingue dagli amici del “branco” dai quali non può venirgli alcun aiuto (“…vedo quelli che mi vorrebbero restare accanto aver la forma di un riccio velenoso su cui, malgrado io voglia, non posso appoggiarmi per non ferirmi ancora di più, di quanto già sono.”), ma per i quali certamente può ancora fare qualcosa. Egli inizia, dunque, questo nuovo “lavoro” e, per prima cosa, cerca di convertire Nicola alla vita - (forse è ancora in tempo) - donandogli il tesoro della propria dolorosa esperienza.
Mauro non vuole essere un novello Redentore, bensì uno strumento, un oggetto per se stesso di poco valore, ma da usare quando serve e da gettar via quando il suo compito si esaurisce.
Sebastianelli affronta problematiche religiose senza perdersi in speculazioni filosofiche e metafisiche, adattando con piena consapevolezza la morale cristiana e i suoi precetti in bocca ad un comune mortale che tanti sbagli ha commesso nel corso della propria esistenza e che si trova con un piede all’ Inferno e con l’altro in Paradiso.
“La morte non significa morire”. Mauro non è mai stato così vivo dentro, così padrone della propria esistenza, così se stesso: “Sono io, vivo, finalmente. Sono io!”
Roberta Cocciuti
Collana "Gli Emersi"
pp. 56 €12.00
ISBN 88-7680-071-9
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