Spadari Aldo

L’inutile ape

INTRODUZIONE di Barbara Zoppi

La storia di una grande passione, di un amore indimenticato, indimenticabile, inestinguibile. Un grande amore sospeso nel circolo del tempo, in cui l’autore, alla ricerca di un’identità propria, tra  ritorni e continui, devastanti abbandoni dell’amata, riscopre invece se stesso e si completa alla fine come uomo.

La raccolta delle liriche di Spadari può sintetizzarsi  così. Poesia della luce e del buio, del Sole e della luna, del freddo  e del caldo, dei ritorni e degli abbandoni. 

Sono questi i temi ricorrenti appartenenti alla tradizione più classica.

Una poesia della tensione dunque, tra l’assenza traumatizzante da fuggire ed una presenza mai afferrata da inseguire, in cui l’autore si percepisce sempre in un “non posto”, tra figure nebulose e luoghi indistinti che non gli appartengono e cui non appartiene.

Sarà tuttavia in quella “terra di mezzo”, che lo stesso si ritroverà a vivere senza felicità, eppure senza tragedia, ferito, ma non distrutto, attraverso la messa a fuoco graduale delle immagini e dei volti del presente.

Rimane la percezione di un percorso in itinere che permetterà forse a quei volti di diventare significativi. Volti del presente che forse permetteranno di avvicinarsi a quelli del passato, accettando in qualche modo di venir meno alla devozione totale (e paralizzante) nei confronti dell’amata… e delle amate.

L’analisi tecnica e stilistica della raccolta risente della formazione umanistica dell’autore, soprattutto nella parte iniziale.

Echi, assonanze catulliane e petrarchesche sono respirabili nelle prime liriche, rimandi montaliani e ungarettiani nelle successive.  

Una contaminazione letteraria dichiarata, un sorta di esercizio tecnico, dal 1999 al 2004, periodo relativo all’insegnamento.

L’ape-Spadari però elabora dentro di sé, produce il miele posandosi in questo florilegio di autori e di persone che incontra.

Bagliori di luce,il caldo, gli odori e i sapori sanciscono gli incontri e i momenti vissuti insieme all’amata. Il buio, il vuoto,il freddo, sono i lunghi periodi della lontananza, del distacco, del dolore.

Le liriche abbracciano un periodo che va dal 1999 al 2009.

Un decennio (i cosiddetti “Anni Zero”appena alle nostre spalle) in cui tutte le certezze dell’autore cadono e d’improvviso la sua vita cambia radicalmente.

L’incontro e la relazione altalenante con quella che egli considera la donna della sua vita lo scuotono dal torpore del nido familiare in cui è stato relegato pur di non tradire gli affetti familiari. Si comincia ad incrinare così quel rapporto genitoriale allo stesso tempo protettivo e possessivo in cui egli è vissuto senza ribellarsi, perché fino allora non c’era stato un disagio o malessere. L’imprinting, però, è pesante.

Il cordone ombelicare psicologico viene reciso più dagli eventi che dalla volontà.

Il trauma della morte dell’amatissima madre nella lirica “Voglio pensarti” (l’altra vera donna della sua vita) è il punto di svolta, il momento del passaggio e del recupero di una propria identità e della propria autonomia.

Dopo un primo comprensibile momento di sbandamento l’autore, anziché chiudersi in se stesso, si apre all’esterno e mette tutto in discussione, anche la sua vita.

Ne conseguono inevitabili i conflitti. In gioco non è solo l’eredità materiale, ma soprattutto quella degli affetti, quella degli insegnamenti, quella morale.

In questa battaglia l’autore si trova da solo a combattere, ma non si perde d’animo.

Si aggrappa a figure femminili, che assumono inizialmente una funzione terapeutica, che poi diventerà formativa. La donna ostinatamente amata, invece, assolve ad un’altra funzione.

Per certi aspetti accidentali con la sua  possessività, con la dominanza e con il forte controllo contribuisce alla riedizione genitoriale del trauma, con i continui ritorni e abbandoni. In questa “coazione a ripetere” l’autore sembra uscirne con le ossa rotte, ma paradossalmente ogni volta si fortifica, cresce sempre di più. L’insistenza a scegliere solo quella donna come Musa non è una pulsione ossessiva. È il solo il modo per fare i conti con se stesso e cambiarsi.

Gli anni in questione vengono scanditi con le canzoni. Canzoni che anticipano le poesie, come una sorta di colonna sonora del film della sua vita e hanno una funzione corale. Pietre miliari che determinano lo svolgersi del tempo, insieme alle poesie.

Una canzone degli anni Sessanta dice “Si muore un po’ per poter vivere”. È quello che accade. Accade un po’ ad ognuno di noi ogni volta che si deve cambiare.

In questa metamorfosi si arriva alla conclusione che per essere felici non bisogna dipendere da qualcuno. Più che una questione di felicità la posta in palio è una altra: è una questione di vita. L’amore incondizionato non basta più, soprattutto se è solo ad una voce. Viene superato. L’amore più grande è quello di poter lasciare libero chi si ama. E soprattutto che non bisogna annullarsi o lasciarsi dominare da un’altra persona, ma camminare insieme a lei di pari passo.

Per poter prima voler bene ad un altro bisogna soprattutto voler bene a se stessi. Questa la chiave. Anche se si evince che non muore mai nell’autore la speranza di recuperare l’altra persona, affinché si possa intraprendere un nuovo percorso o con lei o senza di lei. E tutto è lasciato ancora una volta in sospeso, come lo sono solo i grandi amori.


Collana "Gli Emersi - Narrativa"
pp.120 €14,00

ISBN
978-88-6498-444-5

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