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Spadari Aldo
INTRODUZIONE
La storia di una grande passione, di un amore indimenticato, indimenticabile, inestinguibile. Un grande amore sospeso nel circolo del tempo, in cui l’autore, alla ricerca di un’identità propria, tra ritorni e continui, devastanti abbandoni dell’amata, riscopre invece se stesso e si completa alla fine come uomo. La
raccolta delle liriche di Spadari può sintetizzarsi
così. Poesia della luce e del buio, del Sole e della luna, del
freddo e del caldo, dei
ritorni e degli abbandoni. Sono questi i temi ricorrenti appartenenti alla tradizione più classica. Una
poesia della tensione dunque, tra l’assenza traumatizzante da fuggire
ed una presenza mai afferrata da inseguire, in cui l’autore si
percepisce sempre in un “non posto”, tra figure nebulose e luoghi
indistinti che non gli appartengono e cui non appartiene. Sarà
tuttavia in quella “terra di mezzo”, che lo stesso si ritroverà a
vivere senza felicità, eppure senza tragedia, ferito, ma non distrutto,
attraverso la messa a fuoco graduale delle immagini e dei volti del
presente. Rimane
la percezione di un percorso in itinere che permetterà forse a quei
volti di diventare significativi. Volti del presente che forse
permetteranno di avvicinarsi a quelli del passato, accettando in qualche
modo di venir meno alla devozione totale (e paralizzante) nei confronti
dell’amata… e delle amate. L’analisi
tecnica e stilistica della raccolta risente della formazione umanistica
dell’autore, soprattutto nella parte iniziale. Echi,
assonanze catulliane e petrarchesche sono respirabili nelle prime
liriche, rimandi montaliani e ungarettiani nelle successive.
Una
contaminazione letteraria dichiarata, un sorta di esercizio tecnico, dal
1999 al 2004, periodo relativo all’insegnamento. L’ape-Spadari
però elabora dentro di sé, produce il miele posandosi in questo
florilegio di autori e di persone che incontra. Bagliori di luce,il caldo, gli odori e i sapori sanciscono gli incontri e i momenti vissuti insieme all’amata. Il buio, il vuoto,il freddo, sono i lunghi periodi della lontananza, del distacco, del dolore. Le
liriche abbracciano un periodo che va dal 1999 al 2009. Un
decennio (i cosiddetti “Anni Zero”appena alle nostre spalle) in cui
tutte le certezze dell’autore cadono e d’improvviso la sua vita
cambia radicalmente. L’incontro e la relazione altalenante con quella che egli considera la donna della sua vita lo scuotono dal torpore del nido familiare in cui è stato relegato pur di non tradire gli affetti familiari. Si comincia ad incrinare così quel rapporto genitoriale allo stesso tempo protettivo e possessivo in cui egli è vissuto senza ribellarsi, perché fino allora non c’era stato un disagio o malessere. L’imprinting, però, è pesante. Il
cordone ombelicare psicologico viene reciso più dagli eventi che dalla
volontà. Il
trauma della morte dell’amatissima madre nella lirica “Voglio
pensarti” (l’altra vera donna della sua vita) è il punto di svolta,
il momento del passaggio e del recupero di una propria identità e della
propria autonomia. Dopo
un primo comprensibile momento di sbandamento l’autore, anziché
chiudersi in se stesso, si apre all’esterno e mette tutto in
discussione, anche la sua vita. Ne
conseguono inevitabili i conflitti. In gioco non è solo l’eredità
materiale, ma soprattutto quella degli affetti, quella degli
insegnamenti, quella morale. In
questa battaglia l’autore si trova da solo a combattere, ma non si
perde d’animo. Si aggrappa a figure femminili, che assumono inizialmente una funzione terapeutica, che poi diventerà formativa. La donna ostinatamente amata, invece, assolve ad un’altra funzione. Per
certi aspetti accidentali con la sua
possessività, con la dominanza e con il forte controllo
contribuisce alla riedizione genitoriale del trauma, con i continui
ritorni e abbandoni. In questa “coazione a ripetere” l’autore
sembra uscirne con le ossa rotte, ma paradossalmente ogni volta si
fortifica, cresce sempre di più. L’insistenza a scegliere solo quella
donna come Musa non è una pulsione ossessiva. È il solo il modo per
fare i conti con se stesso e cambiarsi. Gli
anni in questione vengono scanditi con le canzoni. Canzoni che
anticipano le poesie, come una sorta di colonna sonora del film della
sua vita e hanno una funzione corale. Pietre miliari che determinano lo
svolgersi del tempo, insieme alle poesie. Una
canzone degli anni Sessanta dice “Si muore un po’ per poter
vivere”. È quello che accade. Accade un po’ ad ognuno di noi ogni
volta che si deve cambiare. In
questa metamorfosi si arriva alla conclusione che per essere felici non
bisogna dipendere da qualcuno. Più che una questione di felicità la
posta in palio è una altra: è una questione di vita. L’amore
incondizionato non basta più, soprattutto se è solo ad una voce. Viene
superato. L’amore più grande è quello di poter lasciare libero chi
si ama. E soprattutto che non bisogna annullarsi o lasciarsi dominare da
un’altra persona, ma camminare insieme a lei di pari passo. Per poter prima voler bene ad un altro bisogna soprattutto voler bene a se stessi. Questa la chiave. Anche se si evince che non muore mai nell’autore la speranza di recuperare l’altra persona, affinché si possa intraprendere un nuovo percorso o con lei o senza di lei. E tutto è lasciato ancora una volta in sospeso, come lo sono solo i grandi amori.
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