Averardo Contardi
Riflessioni in poesia
Ho conosciuto Averardo verso la fine del 1956, sicuramente in qualche occasione del comune impegno ideale e politico. Ci siamo frequentati non assiduamente per la diversità delle occupazioni, comunque sempre e puntualmente nelle scadenze importanti e senza perderci di vista, pur con lunghe pause, a causa del comune sentire.
Eppure in tanti anni non mi sono accorto che Averardo, oltre che un amico carissimo, coerente e animoso, era ed è anche un poeta.
Già, ma chi è poeta? Per carità, non scomodiamo i grandi antichi contendenti Platone e Aristotele, né i nostri grandi moderni da Vico, via romanticismo, a Croce ed oltre. E qui prudentemente mi fermo.
Forse lo siamo un po’ tutti, almeno chi ha la fortuna di un animo sensibile, aperto alla natura, agli altri, al mistero di Dio.
Ogni definizione è sempre problematica, specie nei periodi storici di aridità spirituale e di decadenza etica e culturale.
Mi limito a dire che la scoperta di un amico poeta, nel grigiore di oggi, è una buona novella. Il lavoro che qui si propone abbraccia un periodo, gli anni ’70 del ’900 con qualche puntata prima e dopo, che per lui e per me è stato centrale nella vita pubblica e privata, nel maturare una cultura e nello svolgere un servizio sociale. Non credo sia possibile segmentare il prodotto dell’estro di Averardo. Oso immaginare che in una esistenza felice per calore di affetti familiari, ma provata da difficoltà sociali e da problemi fisici prostranti, il suo animo sensibile sarebbe stato portato a cantare una vita raccolta e consolata dal clima del nido, la natura amica, la grandezza di Dio.
L’amore ricambiato per la compagna adorata della sua vita, per la figlia tanto amata sgorgano unitamente nella visione paradisiaca del paesaggio, forse più idealizzato che reale, dalla emozionante Ischia, alla romantica Villa Borghese, alle albe luminose e speranzose dopo le notti stellate, ma spesso tristemente meditabonde, alle suggestioni di un mondo avvertito come amico.
Ma Averardo è un uomo del nostro tempo, non vive in una astrazione proiettata verso l’infinito poetico. E allora ecco i temi, poco poetici, nel senso comune attribuito a questo aggettivo, di quel decennio e, perché no, (peggio ancora) di quelli attuali. Povertà e ricchezza sfacciata, razzismo, guerre periferiche ma non meno micidiali, inflazione, crisi finanziarie e monetarie, lacerazioni sociali, un’angoscia di produrre, produrre, consumare, consumare, crisi della classe dirigente, le meschinità della politica non ispirata ad alti obiettivi, trasformismo e cinismo e così via. Sono gli anni ‘70, investiti da eventi, anche scatenati dalla “rivoluzione” del ‘68, dopo la rinascita post bellica e il “miracolo” culminanti in un crescente terrorismo politico e l’incombere di una malavita che domina larghe parti del Paese.
Averardo non è certo un “sessantottino”. Cattolico praticante, animato da un impulso progressista, democristiano militante, fanfaniano sulla scia di Dossetti. Non gli sfuggono le stonature del nostro (di lui e mio) partito, pur tanto amato e servito. Non si risparmia e non risparmia.
Chi è che “rumoreggia”? Chi è il “falco aretino”, non certo quello della zoologia mediterranea.
Questo slancio dell’animo, impegnato ma critico, appare e riappare, tra romantici intermezzi e pause serene e meditative, nelle 183 poesie di questo volume, nell’alternarsi della routine di un impiegato di un ente pubblico, ai commossi ricordi della mamma morta, alla struggente melanconia del “ritorno”, agli slanci per uscire dalle vicissitudini di una attualità angosciosa e stressante per respirare aria più pura, oltre il clivo della “abulia” e l’abisso dello sconforto.
Ma Averardo è un forte credente e alla fine ci sorride sopra. Bravo Averardo! Hai contribuito a farmi vivere meglio.
dalla Prefazione di Clelio Darida