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Daniela Minicocci Ho scritto la mia prima poesia a scuola, mentre gli altri bambini erano fuori per la ricreazione. Ero sola nel mio piccolo banco con il vecchio buco per il calamaio; ancora la maestra non ci aveva spiegato le doppie. Siccome ero una mammona, e temo ancora di esserlo, composi alcuni versi per mia madre: scrissi in verticale la parola “mappamondo” e liberai la fantasia. Lo chiamano “acrostico”: io credevo di aver scritto qualcosa che doveva parlare del mappamondo, e che aveva finito per parlare della mamma. Una sorta di esperimento miseramente fallito. La maestra non doveva pensarla così, perché continuò per molti giorni a leggere la mia poesia agli altri bambini e a tutte le mamme che le capitavano a tiro. Anni dopo, alle scuole medie, vinsi un concorso con “soldatino siciliano”: pochi versi che parlavano del pupo di latta che mia nonna teneva appeso in soggiorno. I professori interpretarono il tutto come un’arringa contro la mafia e gli attentati a Falcone e Borsellino: alla premiazione, dissero mille parole che mi lasciarono stupita e che nemmeno ricordo più. Già da tempo sapevo di essere poco capita, e quel giorno ne ebbi la conferma. Contemporaneamente, mi fu anche chiara un’altra verità: a volte essere compresi significa essere banali, e perciò li lasciai fare. Più tardi risolsi che per scrivere e farmi comprendere, senza risultare banale, dovevo studiare, e feci l’unica cosa che potevo fare: frequentai il Liceo classico per potermi iscrivere a Lettere. I miei studi mi hanno portata a conoscere mostruose generazioni di poeti e di scrittori, a capire cosa significa saper scrivere bene e soprattutto ad acquisire quell’umiltà necessaria per comprendere i miei limiti. La poesia è difficile: da scrivere, da ascoltare, da leggere. Richiede tecnica, preparazione, studio. Di sicuro il mio studio è stato parziale e incompleto, come quello di tutti d’altronde. Tuttavia queste poesie sono il frutto di ore trascorse in silenzio, con lo sguardo nel vuoto e il cuore pesante come un macigno, mentre gli altri intorno si chiedevano se fossi ancora viva. Sono il frutto di anni su libri vecchi e nuovi, di passione per gli scritti altrui, di ore di spensieratezza perdute e di un pizzico di sorridente sofferenza che da sempre accompagna la mia vita. Sono una ragazza qualsiasi che rimarrà tale, e non pretendo di insegnare nulla, perché non finirò mai di imparare e di ascoltare: so di non essere una poetessa per mestiere, e forse nemmeno per vocazione. A volte penso delle cose, e le scrivo per non annoiare il povero ascoltatore di turno. A giorni alterni vorrei che il mondo intero sapesse cosa mi passa per la testa; più spesso, mi importa poco o nulla del mondo intero. Scrivere è una delle poche cose che mi riesce facile, ha per me quella che i professori di greco definirebbero una funzione apotropaica: attraverso la scrittura sfogo i miei odî e i miei malumori, oppure quelle gioie che voglio celare perché ritenute futili dai più. Chi immagina di trovare grandi poesie in questo volumetto rimarrà deluso; magari si troverà a riflettere, a sorridere, ad annuire: spero almeno che in quell’oretta di coraggiosa lettura si annoi un po’ meno. Mi rende tranquilla e felice sapere che le mie poesie sono raccolte qui e che magari qualcuno, oltre ai miei (pazienti) familiari, le leggerà. Forse il mio animo è pervaso da un po’ di sciocca vanità: una delle poche che mi sia mai concessa. In tutti noi comuni mortali vanitosi e un pochino disperati c’è un desiderio di immortalità: quest’ultima ci spinge a sperare che il mondo conservi una piccola parte di noi, da affidare ai famigerati posteri. I più risolvono facendo figli, e si tratta di una soluzione nobile, oltre che utile al mondo. Io, per ora, mi accontento di sfornare poesie e, come tutti i poeti, sento ciascuna di queste poesie come una figlia. Qualcuna è un po’ ribelle, qualcuna misteriosa, un’altra fa la furbetta e ti vuole trarre in inganno. Tutte, alla fin fine, sono oneste e vengono dal cuore: chiedono solo al lettore di essere strapazzate il meno possibile. Scrivendo ho cercato di essere altruista: niente paroloni nè giri complicati. Ciò che scrivo è da sempre poco complicato e, mi auguro, abbastanza chiaro. Non amo gli scrittori che sfoggiano cultura e arcaismi a discapito della comprensibilità, e siccome la mia poesia persegue l’obiettivo della chiarezza e della semplicità, spesso mi sentirete parlare di amore, di odio, di alberi e di cielo: cose di cui tutti hanno sentito parlare, che nascondono grandi verità e da cui si possono trarre grandi insegnamenti, se osservate con occhio attento e meravigliato. Mi stupisco ogni giorno della perfezione e dell’infallibilità della natura: nel mondo tutto è ordinato meticolosamente e, se non fosse per l’uomo, ogni essere vivente avrebbe il suo preciso posto e la sua giusta collocazione. Ho fatto mio il concetto di molte grandi religioni: ogni evento del mondo è un grande miracolo, dal passo della formica al volo dello Shuttle. Perciò considero prezioso ogni secondo trascorso a osservare, a capire e a far capire. Per tale motivo, infine, in me rimarrà sempre nascosta la bimbetta un po’ musona seduta al banco di scuola, che libera la fantasia e spalanca gli occhi. Tutti coloro che mi hanno aiutata e sostenuta e che continueranno a farlo non hanno certo bisogno di noiose e impacciate lodi a fine prefazione. Li conosco bene tutti e loro conoscono bene me: ci basta questo. Collana "Gli Emersi - Poesia" pp.64 €12.00 ISBN 978-88-7680-345-1 |
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