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Federico Montanari

Pagine senza bordi

Un poeta deve far crescere nella gente la voglia di vivere, vivere luoghi, estranei, amori, dolori compresi. La poesia non deve dare sovrappensiero, timore, preoccupazione. La poesia deve essere prima di tutto una celebrazione della potenza e dello sconfinamento. Voglio aumentare i modi di vedere le cose, dare un’idea insospettata di ciò che può essere l’uomo e di quali bellezze può trovare in sé. Voglio mostrare che la nostra delicatezza, sensibilità, è una fonte di ricchezza.
La poesia buona sa essere un battesimo ogni giorno. La poesia è sempre celebrativa, e sempre omaggia una realtà, la bellezza di un’inquietudine, di una rabbia. Senza questa coscienza di bellezza, l’uomo non farà che perdere l’amore per se stesso, paventando in sé solo ombre; comprendendo meno sé, l’altro, e le soluzioni. Scrivere per esprimermi, e quindi, per proteggere me, la comprensione, la bellezza, i lati coraggiosi nella pioggia, la dolcezza addolcente, la spinta all’affetto incondizionato, al fascino oscuro, allo spirito d’avventura della curiosità che si divincola dalla statua dell’orgoglio che frena la verità e la maturazione; scrivere per propagandare questi e le stelle marine d’appuntare allo sguardo che riflette panorami. Scrivo perché sento la mortalità cingermi, col suo frinire rauco e assediante rendendomi acceso e irradiante.
Se l’uomo oggi cerca se stesso, è raro compia questo viaggio sulle ali dell’entusiasmo ma provocato da angosce, situazioni da riordinare, nebbie che vogliono risposte per essere annullate e chiarificare il sentiero, perché alle strette.
Il mio intento è un rafforzamento dell’essere e inibizione della sua inibizione, un arricchimento paesaggistico e di profondità. Voglio farti piacere ciò che non credi e darti un riempitivo che neppure sospetti. Abbattere la paura che l’uomo ha della sua interiorità, la paura della luce. L’inchiostro più avanti vorrebbe evidenziare gli innumerevoli modi di osservare le cose, vorrebbe rendere la vita affascinante, vorrebbe evolvere l’arguzia, l’immaginazione, necessaria al dubbio e alla saggezza. Mi preme fare interessare l’uomo all’uomo.
Se in certe pagine voglio evolvere delicatezza devo cercare anche di trasferire forza per sostenerla. Devo esprimere una contagiosa forza o la delicatezza diviene fragilità troppo problematica e peso morto. Chi scrive si prende una responsabilità, una responsabilità di intervenire nell’intimo. Al tempo stesso ho paura come d’infettarti con un vaccino. Riuscire con le briciole zuccherate del verso a riportare l’uomo in contatto con se stesso, con le sue capacità comprensive, percettive,di potenza, con la sua cascata interiore. Mostrando non solo la luce ma fare vedere il buio, nell’eterna incompiutezza della nostra coscienza. L’uomo ha bisogno di chiarezza che gli faccia vedere dove e come vive il mistero. Questo libro, ambizioso eccessivo, vuole riesumare sepolte potenzialità spirituali. Voglio un libro che insegni la delicatezza, la finezza percettiva - nel sentire, nel porsi, nel pensare e affermare - e che impegni e dia habitat a tale delicatezza sovversiva e finezza. È come un urto necessario, a molti darò fastidio, forse tutti abbiamo certi pensieri che non esprimiamo per paura di sembrare “strani”, ma come diceva Kurt Cobain “preferisco essere odiato per ciò che sono che amato per ciò che non sono”.
Ho cercato di diluire un’atmosfera di distensione e quiete con un’atmosfera di riconciliazione con se stessi, carente fuori di qui, in una tensione d’affinamento. Ho cercato di formare un luogo dove poter riversare la propria sensibilità, umiltà, dubbio, paura, una sorta di rifugio dove chiunque può trovarsi, sentirsi compreso e condiviso; un luogo isolato dove l’uomo non si senta nient’altro che l’uomo.
Questo non è un libro triste, qualunque cosa vi sia scritta. Questo è un libro di slancio, di devota agitazione, d’azzardo creativo, di caparbia e inondazione richiesta e coltivata; questo vorrebbe essere un libro d’essere.