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Luca gabriele Nel canzoniere d’amore di Luca Gabriele Amatamaro, dal titolo ossimorico insieme evocativo e stracciato dall’uso dell’evidenza quotidiana, eros e thanatos delicatamente convivono, incuranti dei tempi, della loro eternità, sempre acutamente giovani, di rose e di spine: «T’ho attesa paziente, mani giunte sopra il tavolo, che fiorissi tre le mie carte bianche, parola.» Sgrano le parole e le immagini, all’unisono di una musica, parvenza non troppo lontana nel tempo e appaiono i momenti luminosi in cui, con alcuni amici, ci siamo radunati quasi per caso a scambiarci doni poetici, a partire dal proprio mondo di letture, di incontri, di visioni teatrali. Alcuni, poi, hanno cominciato a leggere i propri testi. Nella navicella di Dante e Lapo mi pare, come in un sogno, di aver viaggiato, in aule universitarie molto raramente adibite a queste riunioni informali, un poco eretiche, erratiche, rispetto all’accademia (sia detto senza alcuna polemica). Poi qualche amico è disceso, ha lasciato la zattera. Ha provato pioggia e sale. Sole. Altri sono approdati, tornati. Mi sembrava il cielo di una grande alba. Luca Gabriele, di questa compagnia, è il primo a pubblicare in proprio un volume di poesia, che affonda le sue radici, nonostante la giovanissima età, in tempi anche lontani. Lo spasimo dell’amore ne è la contrazione assoluta: «Amami in qualche ora vuota in una giornata persa, amami quando avrai tempo. Amami quando avrai cent’anni e nient’altro da fare, se di me avrai ancora un ricordo.» Trasuda il volume della ricerca di eterno in musica, insieme ad uno sguardo non cerimonioso alla gratitudine. «Non chiudere la porta, allora, se non vuoi che resti chiusa. Lasciala aperta, un poco: penserai che sono uscito un istante e tra un istante tornerò.» Viene da citare, ovviamente con le debite distanze e il timore e tremore doveroso, questa intensa espressione di Nadime Gordimer «Quella notte fecero l’amore, amandosi in qualche modo che è un altro paese, un paese a sé stante, né il mio, né il tuo». Un altro paese, a sé stante: implica un sortilegio di solitudine e il deserto del dopo. Di più se si è speso tutto il corpo nell’emozione dell’amore, morso di cane rabbioso appare la sete, l’abbandono, avvertito, dalle anime più radicali, anche nel batter d’ali di una distrazione, segno indelebile del limite, capace, non si sa come, di volgere amore in rabbia: il calice, insomma è anche amaro, ma va bevuto per intero. Quella spesa di assoluto, eros e thanatos, qualcuno la chiama ricerca di Dio nel corpo scosso degli uomini, e quella specie di orgasmo troppo breve che ritorna a pulsare nei modi e nei momenti dell’esistenza. Batte. Luca Gabriele possiede acuto il senso della fine dell’amore, ma gioca oltre, con l’oltre. Le sue non sono solo immagini ben confezionate, ma gesti, avvolgimenti: «Ad occhi chiusi… …saprò riconoscerti nella folla. A bocca chiusa… …saprò dirti quanto mi sei mancato. Se un istante solo ci è concesso appartenerci, cercami nel tempo, nei luoghi dove abbiamo camminato insieme io furtivo, tu gradasso. Mi ritroverai lì in quel tempo ancora, ancora in attesa, io paziente, tu distratto io mai sazio, tu altrove. A mani giunte… …ti pregherò “rimani”. A denti stretti… …ti vedrò voltarti.» Può (sa) anche bruciare questa delicatezza tragica e la cenere comporre in disegni di speranza, sottovoce, come se l’amore avesse sempre un abbraccio. Si trova nella ricerca stessa della poesia nel desiderio di “guide”, nella cultura, nella scrittura. Una punta di autoironia, per vincere il sale sulle ferite e ricominciare nuovi, magari lasciando ad altri un sordo rancore e recuperando i tempi estrosi della felicità. «In settembre, fervori e tormenti che allora m’ardevano finirono spenti nella pagina scritta che li incenerì.» Fabio Pierangeli Collana "Gli Emersi - Poesia" pp.76 €12.00 ISBN 978-88-7680-767-1 |
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