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Luciana Mameli
L’ombra e la farfalla
Ho incontrato una voce. L’accostamento sensoriale non suoni
contrastante: talvolta accade di incontrare una voce, esattamente
come si incontra una persona. La si avverte, e la si riconosce, percorrendo
la superficie liscia di un foglio, assecondando le pieghe
prodotte dall’inchiostro, che di quella voce sa restituire l’impasto.
Non ha volto, la voce, tuttavia magistralmente disegna lineamenti,
senza proporsi esattezza fotografica, piuttosto la lucidità anche impietosa
di un riflesso. Una voce fa questo, e non fallisce. È ciò che
è accaduto percorrendo i versi de L’ombra e la farfalla. L’incontro
con una voce.
Mi è tornato alla mente il passaggio di una narrazione di Calvino,
mentre percorrevo le poesie di Luciana Mameli. La combinazione,
pur imprevista, tra le pagine di un romanzo e i versi di una raccolta
poetica non ha generato stridore, piuttosto un sorriso: le parole
meglio di noi scavalcano le sponde di genere. “[…] l’assolutezza dei
suoni che non attendono risposta, come il verso dell’ultimo uccello
di una specie estinta o come il rombo stridente d’un aviogetto appena
inventato che si disgrega nel cielo al primo volo di prova […]”.
Questa è autenticamente una voce, ed è accaduto che la incontrassi,
nitida e distinta. Alta sull’intreccio delle parole, sospesa oltre la versificazione
che delle parole si produce, oltre la costruzione o l’intenzionale
decostruzione di un tessuto metrico. Il suono ultimo e
il suono primo, per ragioni solo apparentemente opposte confinati
alla medesima solitudine – la voce di chi non ha più o non ha ancora
uno specchio su cui riflettere se stesso e in quel riflesso ha la possibilità di riconoscerci.
La voce è il suono che ci appartiene, che ci contraddistingue e
intimamente ci dettaglia. È la prima alterazione che produciamo
nel mondo, con quel grido che dilata i polmoni – è ciò che ci mette
in relazione profonda con tutto quanto è attorno. Con un sasso
che scivola, un’onda che si spezza sulla scogliera, una foglia che
si riduce in frammenti minuti sotto la suola di una scarpa. Siamo
quel sasso, quell’onda, quella foglia. Siamo la vibrazione d’aria che
ci racconta.
E la voce viene prima. Prima di impastarsi con le parole, e prima
che le parole la scandiscano. Viene prima dell’ordine decifrabile, e
prima del tentativo di decostruirlo, quell’ordine che talvolta rischia
di farsi trappola. Prima della trama imposta di vocali e consonanti,
prima della loro scansione in sillabe, prima della magia della parola
che si compone – e ogni volta è imprudente quanto a noi dovuto
immaginare stia accadendo per la prima volta. La voce è l’urlo prima
dell’educazione a urlare, o a smettere di farlo. È la successione
combinatoria prima dello spartito. È il volo – o l’abbandono di sé
– che non conosce direzione e non ha ancora piegato il suo arco
al controllo. È il suono dell’essere al mondo. In un certo modo e
nonostante tutto.
Questo suono si è sollevato dalla superficie permeabile della carta.
Si è sollevato senza mai assumere i toni di un proclama, piuttosto a
tratti quelli inattesi di un canto. Si è imposto vincendo la tentazione
lucida e presuntuosa del silenzio, quel silenzio che talvolta meglio
sembra rispondere – e forse risponde – alla pungente percezione
dell’inanità e della nullità dell’esistenza umana. Ho ascoltato i suoi
passi battere su ciottoli freddi, li ho seguiti scansare dita vischiose
e acque di palude, farsi ostinatamente strada tra fiere ignoranti e
creature fameliche, preferire la solitudine del proprio andare al barroccio
del circo ambulante. La voce non si spezza, non retrocede. È
testarda, affilata persino. Distingue e scoperchia. Attraversa i mercati,
tra venditori ambulanti e ciarpami, siede a teatro, sale i gradini del
tempio, spalanca la porta della propria stessa dimora. I suoi occhi
frugano impietosi. Non c’è luogo svergognato, non c’è sfrontatezza
che non possa essere vista, non c’è più amarezza da cui proteggere
lo sguardo, e l’animo.
Ho seguito le tracce della voce nel suo andare. Ho riconosciuto,
nella profondità dell’orma, la stanchezza del suo salire fino alla vetta
del monte, il sollievo della quiete cercata e trovata nella penombra
invernale del bosco. Lì dove è silenzio, dove lo sciamare umano
è improvvisamente lontano, relegato sullo sfondo. Dove si ritrova il
sillabare della voce bambina, che si combina e dialoga con la natura
in uno scambio primordiale. Non è nido, il giardino segreto dei
limoni, piuttosto la breve sosta dentro un luogo defilato, posto ai
margini del fluire circostante. Non c’è viltà di nascondiglio, in quel
momentaneo distacco, non più. E’ solo il momento in cui il fiato
recupera la calma. Poi è ancora andare e andare, ché la voce è un
viandante, non conosce sosta, sa di non poterne avere. Il suo destino
è l’inquieto vortice, lo sguardo spinto continuamente a scrutare
il levante, il cammino di cui non si vede il termine né si conosce
la precisa destinazione. Il suo destino è la strada del mendicante,
mano tesa e affamata, in incessante ricerca di appagamento.
La voce che ho udito è la risposta. È la risposta dopo l’ascolto,
è la fiducia accordata a ciò che guizza e prorompe libero e fragile,
nonostante attorno sia il deserto. Perché a quel ciclamino testardo
in un lembo di terra abbandonata si risponde. Al refolo di vento si
risponde. Tacere è irresponsabile cecità. È assecondare la fine. La
voce è il canto di risposta.
Ho incontrato una voce, inconfondibilmente. La voce di Luciana
Mameli, non ho dubbi.
Giulia Balzano
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Luciana Mameli è nata a Jerzu (OG) in Sardegna , abita e lavora a Roma. Autrice del libro di poesie Crisalide di giovane farfalla, 2010, Aletti Editore.
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Il libro è disponibile anche in versione e-book a €8,00
Collana "Gli Emersi - Poesia"
pp.88 €12,00
ISBN
978-88-591-0083-6
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