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Un tributo al Grimorio azzurro I.
«La vera nemesi, pasce nelle più selvagge ambizioni che fan di noi ciò che siamo, e possediamo. Lungi dalla probità, vade retro, o agnello dei vizi più sornioni! Scorrono come il buon vino, fiumi di deposte corone, l'acque a recar blasone d'ancor più regale bastone, acciaio plebeo e violini a decantar vanità, ch'al trono del mondo elessero cordiali belluini, chini alla fede, eppure artigiani di rustico orpello a canzonar la verità. La serpe s'annida impaziente della farfalla il battito, come la vedova nera, ed avveduta tesse tranello ad incauto pavone. Così, in nomine di collettiva sicumera e vox populi, l'astuto oratore si insidia nel giocattolo, ne legge l'innocenza per carpirne le difese, dunque invade, saccheggia, ed alfine, pasteggia con ciò che resta delle mani ad averne carezzato, ignare, il gaudio; destinate, sin dagli albori, alla più mesta fatiscenza. Pietate, comprensione, tolleranza, ed alfine amore.
Imago sbiadite d'anelito azzardato innanzi l'onor della guerra, musa di veemenza ossequiata eziandio dai pargoli, ovunque sulla terra. Distopia da memoria vetusta concepita, di stile impero il ritratto che si staglia a far di volgari signore nient'altro che cani al trotto; ed al guinzaglio, d'un proclama dal passato, inimico del fallace arbitrio umano, che esalta la crudeltà di un barone nell'istante in cui s'improvvisa bohemien, ed esteta farfallone. Non vi è alleata all'infuori della luna, che rifulge sui campi di battaglia mondani, del verbo quanto del ceffone, donde moschetti e cannoni tuonano placidi, parimenti requie e ballate sussurrate da strumenti profani. Madre, lascia ch'io ti accoltelli! Al cospetto dei torbidi istinti di cui i savi son madidi».
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