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Gian Ugo Berti
Ho parlato di te
Ci sono persone che conosci solo “dopo”. Anche se le hai viste,
hai stretto loro la mano, ci hai parlato, metti al posto giusto contorni
e istinti, umanità e limiti solo dopo che se ne sono andate, quando
te li racconta qualcuno che ne ha potuto registrare i passi, contare le
pause, osservare dove gli occhi andavano a scavare. In questo libro
ci sono Angiolo Berti e il buio che lo ha preso negli ultimi anni.
Ma il racconto è anche quello delle luce che gli ha cucito intorno
una lunga vita di cronista e protagonista nel mondo dei giornalisti
italiani. Chi fa il nostro mestiere, e lo fa davvero, cucinando senza
usare precotti, vive vite ricche di fardelli da portare. Mette le mani -
quasi come un medico - in miserie e grandezze diventando capace,
a volte, di gesti importanti che non cercano una cronaca. Agli altri,
spesso, restano lische puntute di determinazione, di forza usata per
fare cose grandi o anche grossolani errori. Non importa. Che poi
tutto questo leggere e raccontare finisca nel buio dell’Alzheimer è
un’altra storia. Forse una di quelle che ha da qualche parte una forma
di contrappeso, come se in quella fuga dalla vita vissuta appieno
ci fosse una ricompensa di riposo che, giustamente, mai potrà essere
accettata da chi ti sta vicino.
Dire che ho conosciuto bene Angiolo Berti è un po’ troppo. In
due occasioni ho incontrato il pioniere della Casagit e mai avrei pensato,
allora, di essere tra quelli destinati a raccoglierne il testimone.
Lui parte della storia della nostra categoria, io giovane delegato, appena
arrivato, ragazzino. Quello che non sapevo era che parlargli significava
anche sottoporsi ad un piccolo interrogatorio, garbato, da
signore d’altri tempi, ma diretto, schietto, a ben vedere anche un po’
ruvido. Ripensandoci oggi potrebbe essere la sintesi di quello che
aveva tenacemente voluto: uno strumento molto concreto per dare
peso alle sicurezze e completare il Welfare dei giornalisti italiani. Di
lui sapevo poco, solo qualche cenno di storia personale. Lungo la
strada di ricordi “riportati”, venuti fuori padre e uno zio partigiani,
quest’ultimo, Lorenzo Cravero, deportato come Berti e ucciso
a Mauthausen, arrivò più attenzione e altre domande. Era come se
Berti avesse trovato un filo comune di ragionamento, una strada
per parlare ad un giovane delegato che sembrava anche disincantato
rispetto a quella Cassa da poco incontrata. Ai suoi occhi, forse, quel
giovane poteva non aver ben compreso che il “modello” della Casagit
si richiamava a concetti, forse sogni, che avevano cittadinanza
proprio negli anni nei quali si lottava per qualcosa di ben più grande.
Ma la conversazione diventò vivace, bella, curiosa. Diceva di come
era stato immaginato un riparo per la salute di giornalisti liberi di
scrivere dando loro uno strumento per mantenere pari autonomia
anche nei momenti meno facili della vita privata. Qualcosa che li faceva
addirittura più forti e tutelati di tanti altri professionisti italiani.
Chissà forse una “casta”, un cesto di privilegi. Dibattito che insegue
gli italiani da sempre nei momenti più scarni, quando risulta impossibile
migliorare le cose per tutti. Ma per la Casagit, oggi intitolata ad
Angiolo Berti, la storia è ben lontana dai privilegi. È come comprare
il pane: paghi di tasca tua per avere qualcosa che ti serve.
Se però devo scegliere il momento in cui ho cercato di conoscere
più a fondo il Presidente Berti è stato quando, a inizio mandato,
in un passaggio difficile per i conti della Cassa e per il mercato del
lavoro dei giornalisti italiani, mi sono chiesto banalmente “ma quel
demonio dagli occhi aguzzi, che sorrideva e colpiva dritto e a fondo
adesso cosa farebbe?” Sono andato a rileggere, cercando un filo per
interpretare decisioni e momenti della nostra storia di giornalisti,
anche i vecchi verbali di Consiglio d’Amministrazione. Ci ho trovato
una sintesi estrema che oggi in parte rimpiango, sacrificata alle
aumentate complessità di gestione pratica e politica della Cassa. Ai
tempi di Berti poche righe raccontavano cambi di rotta fondamentali:
come l’accogliere i familiari tra gli assistiti della Casagit. Poche parole senza tanti fronzoli, né vivaci oratori, dicevano che la comunità
dei giornalisti si era data regole per la salvaguardia della sua salute in
tutto il paese, cercando di dribblare le tante differenze di assistenza
pubblica che ieri come oggi, ahimè, restano. Una lingua ancora una
volta asciutta e a tratti ruvida quella dei primi Cda: pochi numeri
e meccanismi di base fondamentali, quegli stessi che anche ancora
oggi ci permettono di navigare e affrontare onde alte, addirittura
tempeste. Credo quella fosse, in fondo, la lingua giusta per quei tempi
e per i convincimenti di Berti: i giornalisti devono avere un sistema
di tutela, capace di tenere insieme previdenza e salute che è come
tenere insieme solidità e tentativi di “schiena diritta”. Chi navigava
il Transatlantico di Montecitorio in quegli anni sapeva come andava
il mondo. Se il corsivo iniziato pungente, diventa una preghiera
alla politica perché tenga conto di questo e di quello, dell’esistenza
di tanti e differenti modi di camminare l’Italia, è giusto che chi si
assume il compito di raccontare possa provvedere a se stesso. Non
può con la stessa mano sferzare, accarezzare, indicare e chiedere.
Ma lo deve fare - sono certo Berti a questo punto offrirebbe anche
me un caffè come faceva con i barboni - salvaguardando quanti più
colleghi possibili, meglio ancora tutti. Un pensiero semplice e complicato,
sfidante. Chi ha buone retribuzioni garantisca anche chi, ieri
e molto di più oggi, ha meno risorse. Forse il fondatore della Casagit
nel suo buio rimestava anche questo, o forse no. A me fa piacere
pensare che, comunque, certe parole d’ordine non tramontino mai.
Buona lettura
Daniele M. Cerrato - Presidente Casagit
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Collana "Gli Emersi - Narrativa"
pp.192 €14,00
ISBN
978-88-6498-946-4
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