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Carlo Allegri
Antologie sperimentali
Ci sarebbe da chiedersi perché ho deciso di pubblicare una raccolta
di poesie che risalgono ad oltre quaranta anni fa. Forse è semplicemente
una questione di metodo, dato che questo è il primo di
tre volumi che occupano l’arco di un’intera vita (la mia), e seguire
un criterio cronologico è quanto di più ovvio ci si potesse aspettare.
D’altra parte il bello sta nel cambiamento, e così facendo non ho
fatto altro che ripercorrere una vita (la mia) avendo sott’occhio il
mutamento progressivo di una forma e il suo evolvere in criteri solo
parzialmente prevedibili. Forse dai poeti bisognerebbe aspettarsi
l’assoluto ma non è sempre così, anzi non lo è quasi mai, tranne per
quei pochi immensi. Ma tante poesie, una raccolta di poesie, qualcosa
possono pure provocare, che so: un vento leggero, una luce tenue
come di una garza appesa sopra il cielo.
Qualche bel verso ci sarà pure, qua dentro.
A mia discolpa posso affermare però che tutto l’interesse lo farei
cadere sulla persona, e che la qualità vera sta nel fatto che si tratta
di una persona comune, con bisogni comuni, un ambiente comune
(anche se non l’unico ambiente socio culturale possibile) e perfino
un’età comune, che la stragrande maggioranza della gente arriva a
un certo punto a vivere e che sembra così difficile da dominare con
le sole proprie forze.
In tutto questo sono stato sincero: ogni brano è una fotografia
precisa di qualcosa che è successo, un’occasione, una circostanza,
una situazione, un’emozione, un pensiero.
Certo, è tutto accuratamente nascosto e reso irriconoscibile agli
estranei. (Io no, io lo so bene di cosa si tratta, volta per volta.) E
poi ci sono le ingenuità, le ruberie alla moda, i profondi influssi di
coloro che amavo, da Montale a Quasimodo, da Saba a Cardarelli,
da Lee Master a Brecht, da Lorca a Prevert. La cultura di quei tempi,
quella che ci faceva sbavare di desideri. La fascinazione occulta
dell’ermetismo che sulla mia mente esercitava una seduzione che
neppure Chagall o Kandinski. Indubbiamente scrivevo poesie perché
non ero capace a dipingere un quadro. Non cambia poi molto.
Il processo iniziale è lo stesso, diverso è il trasduttore, la membrana
capace di riprodurre le vibrazioni.
Come un pittore attaccato alla sua tavolozza, della quale sperimenta
le possibilità espressive in serie continuative finché esauste,
io sperimentavo quei pochi passaggi di mia creazione che mi piacevano
davvero, ed il suono delle parole. Questo, in quel periodo, ha
provocato un’orgia di ripetizioni, comparabile a un’idea fissa, che
però mi descrive meglio (anche se probabilmente in peggio) e forse
è davvero l’unica cosa da prendere sul serio.
Colpa grave? Il rifiuto cosciente del pop. Il personale bisogno di
autorinchiudermi in un bugigattolo elitario, stimolato in questo da
una pervicace timidezza. Più tardi ho avuto modo di riconoscere il
potere che il pop ha di descrivere l’anima di un mondo, in maniera
molto più significativa del contributo che i cosiddetti grandi uomini
hanno dato al cosiddetto progresso. Il quale non conta nulla, finché
la gente non lo caca dalle viscere. Soltanto dopo è in grado di funzionare
da concime e da matrice comune, diventando in quell’unico
modo il ritratto di un’epoca. Ai tempi nostri queste epoche cambiano
in fretta e difficilmente vanno avanti per più di un decennio.
Non eravamo che prodotti di una cultura piccolo borghese che ci
stimolava al sacrificio per portare a compimento la scalata sociale di
cui i nostri padri avevano intravisto l’opportunità, per quanto frustrata
dalle rovine di una guerra catastrofica e dai conseguenti laghi
di sangue, oceani di amarezze. Non si può non riconoscere a queste
ormai perdute generazioni il merito di aver saputo coltivare la speranza
malgrado tutto. Erano di pasta dura, non facile da spremere.
Restavano della loro forma, pur in assenza di un contenitore. Direi
che la dignità era il loro principale valore. Ad essa tenevano perché la
riconoscevano negli altri.
Nell’universo contadino delle loro origini, neppure gli animali erano privi di dignità.
Non si sarebbero mai sognati di togliere la dignità a un somaro perché lo affardellavano coi
basti, e neppure ad un pollo benché gli tirassero il collo.
Tuttavia, per nostra fortuna, bisogna riconoscere che nell’ambito
di una coercizione severamente e morbidamente esercitata non solo
dalla famiglia, ma dalla struttura sociale nel suo insieme, esisteva una
profonda libertà di pensiero che ci faceva apprezzare come conquiste
personali le trasgressioni che riuscivamo a mettere in atto. Balbettii,
rispetto a quanto sarebbe successo negli anni seguenti. Esisteva
una sicurezza che rendeva difficile il pensare di poter morire per
strada da un momento all’altro.
I nostri compiti ci assorbivano la maggior parte del tempo. I nostri
compiti erano imperativi categorici, e andavano svolti bene “a
prescindere”, sebbene poi tutti si attendessero dei risultati da questi
sforzi. Era un’aspettativa generale, almeno io la vivevo così. I nostri
compiti erano faticosi. In buona parte ci distoglievano dal vivere la
nostra vita. In tanta altra parte la arricchivano considerevolmente.
Dover fare qualcosa elimina la maggior parte dei perché. Come si sa
i perché risultano spesso un po’ destabilizzanti.
Personalmente, come tutti i ventenni, coltivavo assiduamente i miei
amori ed i miei dolori. Ogni piccola scoperta, pratica od emozionale,
diventava facilmente un valore assoluto. Questa ingenuità non arrivava
al punto da impedirmi di considerare simili questioni materia
da manipolare. Così era e così ha sempre continuato ad essere. Per
questo le mie raccolte si chiamano sperimentali. Appartenendo alla
media tranquilla della mia età, è abbastanza normale come il terreno
d’indagine fosse rivolto alla reazione del sé di fronte alle esperienze
sensibili. All’analisi delle proprie emozioni. Probabilmente era ancora
troppo presto per capire che il mondo avrebbe girato anche senza
di noi. Quella era un’età in cui si dava ancora troppa importanza al
recettore e troppo poca a tutti coloro che trasmettevano gli impulsi
che riempivano la nostra vita. In ogni caso l’esasperata soggettività
racchiudeva in sé, e forse lo fa ancora, la bellezza del cambiamento.
Noi stessi, i tempi, l’ambiente, tutto cambiava rapidamente, molto
rapidamente. Cominciai presto a sentire l’esigenza di definire la persistenza.
Finché non mi divenne indispensabile dare una voce alle
canzoni degli altri, che troppo spesso restavano mute.
(dalla Prefazione)
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978-88-591-0327-1
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