Jannichedda percorreva la strada che la separava da Pasqualeddu con tristezza, con dolore e con rabbia.
Era notte; il paese, oramai deserto, era ricoperto da un manto bianco di neve e la sua tristezza si rifletteva nel grigiore delle case appena illuminate.
Si stringeva forte nel suo scialle cercando di non pensare, di ricordare gli anni della giovinezza spensierata, del sole che le accarezzava il corpo nudo quando faceva il bagno al fiume. La vita, al tempo, le sembrava ridente e gli orrori che presto l'avrebbero violentata erano una pagina bianca ancora da scrivere. E invece quel pezzo di olivastro che nascondeva sotto lo scialle e che le si conficcava forte nel petto le ricordò chi era e cosa stava andando a fare.
Una raffica di vento la ridestò dai suoi pensieri. Era tardi, Pasqualeddu la stava aspettando, Marco l'aspettava. Non si era mai rassegnata al suo destino ma era venuta al mondo per questo e l'aveva dovuto accettare.
Tutte le volte che prendeva in mano su mazzolu e vibrava il colpo mortale una parte di lei moriva con chi era venuta ad aiutare. Ma questa volta sarebbe stato diverso. Non c'era più il suo Michele a infonderle coraggio: glielo avevano portato via con orrore e lei era rimasta sola con il suo dolore e il suo dono maledetto. Avrebbe voluto scappare ma doveva andare e compiere ciò che era giusto fare.