Nell’impianto sociale che ci hanno imposto, la percezione che ci possiede, è quella della precarietà; infatti ogni cosa attorno a noi muta celermente, come se ogni equilibrio raggiunto si deteriorasse prontamente, per dar vita ad altre forme passeggere di vita. [...] ingombrante presenza.
In questo contesto di assestamento ininterrotto a situazioni diverse, l’essere umano trova sollievo e sicurezza nella creazione poetica, che ci permette di entrare in contatto con la parte più intima e vera di noi stessi. (Tratto dalla prefazione di Giuseppe Aletti)
Santoro Romeo scrive versi da sempre. In questa seconda antologia, edita dopo Umili Pensieri e l'esperienza narrativa di Africo, il poeta sembra voler continuare a suggestionare il lettore con i suoi toni familiari e il fascino del diverso. Non si limita però a descrivere le note miti e timide di un paesaggio intimo come in Alberello, la sua, infatti, è una poesia di denuncia, dalla forza granitica, che sempre più prende le sembianze di quella terra, la Calabria a lui tanta cara, arida ma coriacea, che non si arrende. Si intravede in questi versi un piccolo grande mondo antico, che inesorabilmente, si sta dissolvendo sotto i possenti colpi di una tanto vantata modernità. Santoro non si rassegna e ci regala delle pennellate di malinconica memoria: il vecchio paese, che eterno riposa; il calabrese, che erra per il mondo; il profumo semplice del gelsomino. Questa silloge è un tributo a quel mondo, un dolce sentimento di gratitudine e di rimpianto, d'infinito amore.